Pubblicato da Redazione
il 07/09/2022
La forte siccità di questa estate sta già avendo forti ripercussioni su alcune produzioni agricole, in particolare sul calibro della frutta, incidendo in maniera rilevante anche sui guadagni degli agricoltori. E’ l’allarme che arriva dal settore pericolo, dove emergono tensioni tra i produttori e distributori, visto che le pere raccolte risultano essere più piccole del normale.
Come denunciamo nel rapporto Siamo alla frutta. Perché un cibo bello non è buono per l’ambiente e l’agricoltura, il mercato- aiutato da una severa normativa- impone rigidi standard di uniformità ai prodotti agroalimentari, costringendo gli agricoltori a gettare via cibo sano e buono, che però non soddisfa i criteri estetici imposti dalla logica del profitto e della commerciabilità. Ecco perché sugli scaffali troviamo frutti della stessa misura e forma e dello stesso colore. Ma le tensioni all’interno del settore pericolo potrebbero cambiare le cose.
Oggi infatti chiedere agli agricoltori di scartare questi prodotti è insostenibile, sia da un punto di vista economico che ambientale.
In questi giorni, il dibattito è finito anche su Italia Fruit, un sito specializzato in ortofrutta, rivolto a consumatori, produttori, imprese e catene della GDO.
Anche noi abbiamo contribuito a questo confronto con una lettera del direttore Fabio Ciconte.
abbiamo letto con grande interesse l’editoriale firmato da Roberto della Casa il 5 settembre, dal titolo “Cinque millimetri che non fanno la differenza”.
Terra!, la nostra organizzazione, nei mesi scorsi ha presentato “Siamo alla frutta”, un rapporto di inchiesta che indaga proprio il problema descritto da Della Casa, cioè l’impatto che il cambiamento climatico sta avendo sull’agricoltura , aumentando la produzione di frutta con calibro inferiore a quello richiesto dal mercato.
Il problema evidenziato sulle pere – negli ultimi anni abbiamo perso migliaia di ettari di produzione – lo abbiamo ritrovato sulle arance nel 2020, con un aumento considerevole della quota di prodotto di piccolo calibro, che ha perso così l’accesso al mercato del fresco, l’unico che sia minimamente remunerativo. Come osserva il suo giornale, non si tratta quindi di un’infausta coincidenza: è un fatto strutturale e irreversibile.
Siamo convinti, infatti, che la crisi climatica aggraverà problemi come questi, e pensiamo che occorra rivedere al più presto i criteri con cui i supermercati commercializzano il cibo fresco. Ha ancora senso oggi, ci chiediamo, affidare il destino di intere filiere a una macchina calibratrice e a una serie di parametri puramente estetici, che appiattiscono la diversità di cui è capace la natura e trasformano l’agricoltura in una produzione seriale?
Nelle nostre interviste alla grande distribuzione organizzata abbiamo trovato un perfetto riscontro con quanto scriveva anche il vostro editorialista: abbiamo domandato ai principali gruppi se fossero disposti, di fronte a un dramma ecologico come quello che stiamo affrontando, a commercializzare anche frutti di dimensioni e forme diverse dallo standard. Ci hanno risposto che il consumatore non li acquisterebbe mai, perché apprezza solo prodotti grandi, lucidi e belli. Ma a nostro parere si tratta di una risposta di comodo, che scarica la responsabilità sul consumatore dimenticando però quanto la GDO abbia la capacità di indurre e, potenzialmente, educare al consumo.
Quel che è certo è che l’ossessione per l’estetica del frutto perfetto non tiene conto della variabilità climatica più pronunciata alla quale la nostra penisola è sempre più esposta, né della capacità della GDO di fare campagne comunicative capaci di raccontare ai consumatori la ragione di certe scelte.
Anche di fronte al perdurare di una crisi energetica che mette in difficoltà imprese e cittadini, oggi è il tempo di invertire la rotta, valorizzando – a parità di qualità organolettiche – i prodotti esteticamente imperfetti invece di metterli al bando.
Un tempo eravamo abituati a mangiare quello che c’era, poi il boom economico e l’industrializzazione del settore agricolo ci hanno fatto perdere le buone abitudini, standardizzando il cibo e offrendo ai nostri occhi un’immagine dei prodotti della natura sganciata dalla realtà. Volenti o nolenti, oggi quella stessa natura ci presenta il conto di decenni di sviluppo che ne ha forzato i ritmi e i cicli. E’ tempo che la GDO, soggetto forte della filiera, e le istituzioni, se ne facciano carico, perché finora il prezzo dell’ossessione estetica l’hanno pagato solo gli agricoltori (e noi consumatori).