Pubblicato da Redazione
il 28/04/2023
Scaffali dedicati, ben in vista e distinti dalle altre aree del supermercato. Etichette con contenuto, origine, provenienza e avvertenze su possibili rischi di reazioni allergiche. Sono le recenti misure messe in campo dal nuovo esecutivo sulla commercializzazione di farine a base di insetti, a cui si è aggiunto il divieto di sperimentare, produrre e importare carne sintetica nel nostro paese e quello di utilizzare denominazioni come "hamburger di seitan" o "latte di soia", per non ingannare i consumatori.
I ministeri dell'Agricoltura, del made in Italy e della Salute hanno messo a punto ben quattro decreti sulla commercializzazione dei cosiddetti "novel food", prodotti che non rientrano nella cultura culinaria di uno specifico paese. L'Unione europea ha infatti autorizzato la vendita di prodotti a base di farine derivate da grillo domestico, larva gialla della farina, verme della farina e locusta migratoria. E questo ha provocato la veloce reazione dei neoministri, che, rappresentati da Lollobrigida, hanno invocato la necessità di “dare informazioni chiare e rafforzare la capacità di discernimento delle persone rispetto al tema fondamentale dell'alimentazione". In poche parole: trasparenza.
Le stesse critiche sono state avanzate sulle denominazioni dei prodotti vegetali che ricordano ricette a base di carne e sulla carne coltivata. Il concetto è semplice: i consumatori vanno informati sul reale contenuto degli alimenti.
Eppure, se si prova a rovesciare questa retorica, si intuisce facilmente che queste scelte del governo non sono affatto neutre e che hanno come principale obiettivo la difesa degli interessi dell'industria della carne. Ogni divieto introdotto infatti è un piccolo grande aiuto a questo comparto. E poco importa che gli allevamenti intensivi, con le loro emissioni, abbiano una responsabilità enorme nella crisi climatica che stiamo vivendo. Il settore alimentare è responsabile di una percentuale che va dal 21 al 37% delle emissioni globali di gas serra. Di questo ammontare, più della metà (56-58%) arriva dagli allevamenti.
Eppure queste percentuali sembrano non interessare il ministro Lollobrigida, che ignora puntualmente di ricordare le esternalità negative di un settore, fin troppo sostenuto sia a livello europeo che nazionale.
Ecco perché invitiamo il ministro a valutare una proposta che abbiamo già fatto in passato: perché non emanare un decreto con cui rendere obbligatorio segnalare sulle etichette delle confezioni di carne "da allevamento intensivo"?
Anche questa etichetta "rafforzerebbe la capacità di discernimento delle persone sull'alimentazione". E se il ministro è così preoccupato della scarsa trasparenza, perché non introdurla subito? Siamo sicuri che una decisione simile aiuterà molte persone a consumare con consapevolezza la carne e ad informarsi sull'impatto ambientale che ha questo settore.
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