Pubblicato da Redazione
il 23/09/2021
di Fabio Ciconte per Domani
Oggi a New York le Nazioni Unite tengono il summit globale per la sostenibilità dei sistemi alimentari, ma le soluzioni proposte seguono logiche vecchie e pericolose
Mentre fuori dalle nostre finestre siccità e alluvioni si abbattono con una intensità e frequenza mai vista sui campi da cui viene il nostro cibo, mentre la pandemia spezza le filiere lunghe e mette in discussione il sistema della globalizzazione, le istituzioni nazionali e internazionali preparano risposte sempre più inadeguate e pericolose. È il caso del Food Systems Summit che le Nazioni Unite mettono in scena oggi in quel di New York. Un vertice globale che arriva a pochi giorni da un G20 agricoltura che ha prodotto grandi dichiarazioni di principio ma poche proposte concrete, seguito dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio Mario Draghi che ha equiparato l’emergenza climatica alla pandemia, per poi annunciare un impegno economico aggiuntivo dell’Italia di appena uno o due miliardi di euro. Le condizioni in cui si inserisce il summit globale sui sistemi alimentari non sono dunque le migliori per realizzare la missione di rendere il settore agricolo e del cibo parte della transizione ecologica. Il vertice ha l’intento di riunire tutti i portatori di interesse - tecnici, politici, imprese e società civile - intorno a un tavolo per discutere di come riportare i sistemi alimentari sui binari dell’Agenda 2030, nel tentativo di evitare un clamoroso fallimento di questa iniziativa lanciata sei anni fa. Lo scopo sembra nobile, allora perché centinaia di organizzazioni, reti e movimenti della società civile hanno deciso di boicottare il vertice e accusare duramente l’ONU di aver truccato le carte?
Forse un indizio si può trovare nelle modalità diverse dal passato con cui il summit è stato costruito. Invece di essere un forum multilaterale in cui gli accordi negoziati si basano sui diritti umani e innescano una serie di azioni da parte dei governi, questa volta il format è più “liquido”. La prima anomalia è che il vertice nasce da un accordo tra ONU e World Economic Forum, il gruppo formato dalle imprese più potenti del mondo, scavalcando i governi e la società civile. Il conflitto di interessi è talmente evidente che come inviata speciale del Segretario ONU Antonio Guterres è stata nominata nientemeno che Agnes Kalibata, presidente dell’Alleanza per la rivoluzione verde in africa (AGRA), da più parti considerata il veicolo delle fondazioni Rockefeller e Bill&Melinda Gates per portare biotecnologie e agricoltura industriale nel continente.
A completare il quadro è l’approccio scelto per condurre il summit. Ai partecipanti, siano essi governi, individui, agenzie o rappresentanti di organizzazioni, viene chiesto di far parte di un processo multistakeholder, ben diverso dal tradizionale multilateralismo. Sembra una questione di lana caprina, ma non lo è. Mentre di solito sono i governi - e quindi la politica - a guidare il negoziato e a prendere le decisioni, l’approccio multistakeholder mette sullo stesso piano le istanze delle imprese e quelle dei piccoli produttori, non prevede l’avvio di un chiaro iter per applicare nei singoli paesi le decisioni prese e dopo il calo del sipario lascia proseguire l’opera alle attività di lobby.
Gli esperti delle Nazioni Unite in materia di diritti umani - a partire dal Relatore speciale per il diritto al cibo, Michel Fakhri, sono stati molto duri nelle loro critiche al processo. Puntano il dito sulla marginalizzazione del Comitato delle Nazioni Unite per la sicurezza alimentare (CFS), spazio in cui abitualmente hanno luogo queste discussioni, coinvolgendo centinaia di rappresentanti di piccoli agricoltori, pescatori, popolazioni indigene e organizzazioni della società civile. Sono oltre 500 quelli che, sdegnati, hanno aderito al boicottaggio del Food Systems Summit.
Se in linea di principio è una buona cosa far dialogare le parti interessate, questo meccanismo sembra tuttavia inclinare pesantemente il campo da gioco in favore del settore privato invece di mettere al centro della discussione il suo ruolo attivo nella crisi climatica, sociale ed economica. Il controllo che le grandi società agrochimiche, sementiere e della grande distribuzione esercitano sulle filiere alimentari determina in buona parte gli effetti sulla perdita di biodiversità, l’ambiente, il clima e la sostenibilità economica dei piccoli agricoltori. Un summit degno di questo nome le avrebbe fatte oggetto di regolamentazione e politiche redistributive, invece ha deciso di innalzarle a soggetto co-promotore delle soluzioni. Non ci sarà da stupirsi se ne emergerà una lista di proposte molto distante dalle reali necessità di transizione ecologica dei sistemi alimentari. L’enfasi che vediamo ogni giorno sulle nuove tecnologie digitali per una “agricoltura intelligente” e sulle opportunità della manipolazione genetica per mantenere alta la produttività in un clima che cambia, ricorda in tutto e per tutto la promozione spinta delle colture ibride durante la “rivoluzione verde”, con la differenza che oggi - invece di puntare tutto sul solo aumento delle rese agricole a scapito dell’ambiente - si alimenta il mito della cosiddetta “intensificazione sostenibile” per mostrarsi al passo coi tempi. Ma la verità è che questi slogan fanno sempre più un “effetto boomer”, e hanno una presa sempre minore sui consumatori e l’opinione pubblica. Forse i governi che oggi sfilerano al super-vertice dovrebbero domandarsi se davvero conviene continuare a seguire l’agenda stantia delle grandi imprese, mentre fuori dai loro palazzi le aziende agricole continuano a cadere sotto i colpi della crisi climatica e della concorrenza a basso costo.